Mauro Corona

La Vita

Mauro Corona è nato il 9 agosto del 1950.

Rischiare la pelle diventa subito una questione con la quale farà spesso i conti.
Non stupisce infatti che oggi Mauro Corona si ritrovi a essere un animo con la scorza dura e tenace.

«Le grane me le sono andate a cercare ancora in fasce. Appena nato sono stato colpito da una brutta polmonite che, a detta dei miei genitori, non mi avrebbe lasciato scampo.
Attorno al mio capezzale erano accesi ormai anche quattro ceri e le preghiere della nonna Maria, giunta apposta da Erto, restavano l’unica speranza cui affidarsi. Il prete mi aveva dato l’estrema unzione. Sono guarito per miracolo».

«Più di una volta mi sono affidato alla fortuna, purtroppo: quando sono finito in una valanga sul Monte Lodina o durante diverse scalate in balia di temporali che scaricavano fulmini a un passo da me, per esempio».

«Sono nato a Pinè su un carretto, durante uno dei peregrinaggi di mia madre Thia (Lucia). Gli ertani partivano da Erto a piedi, con carretti pieni di mestoli e utensili di legno che vendevano lungo il viaggio. Arrivare a Pinè da Erto significava fare più di 140 chilometri a piedi. Quel giorno mia mamma si accorse che non poteva più aspettare. Dovevo nascere. Le donne delle famiglie più povere partivano per viaggi del genere anche in gravidanza».

Mauro trascorre quasi sei anni a Baselga di Piné, in provincia di Trento.

“Cara mamma, sono stato promosso. Baci”.

Era il 27 luglio 1958 e un giovanissimo Mauro Corona dedicava questa foto alla mamma, scrivendo la frase sul retro.

Successivamente la famiglia decide di riportare lui e il fratello Felice, nato nel 1951, al paese d’origine, Erto: un pugno di case incassato nella valle del torrente Vajont, ultimo baluardo del Friuli occidentale. Mauro conosce i nonni paterni Felice e Maria, e Tina, la zia sordomuta. Trascorre l’infanzia nella Contrada San Rocco, assieme ai coetanei ertani. Alcuni di loro, Silvio, Carle, l’altro Carle, Meto, Piero, Basili diventeranno suoi inseparabili amici.

«Era una vita a contatto con la Natura e con gli elementi della Terra. Fin da bambini ci mandavano da soli in fondo alla valle del Vajont a raccogliere legna da ardere. Ricordo che facevo decine e decine di viaggi, sempre di corsa. Scendere era facile, tutta discesa. Ma salire carichi non era uno scherzo! È da allora che ho imparato ad amare la fatica. Se quella fatica non te la facevi amica, ti annientava».

L’amore per la montagna e per l’alpinismo gli entra nel sangue durante le battute di caccia ai camosci al seguito del padre sulle cime che circondano il paese. Appena tredicenne, in agosto, scala il Monte Duranno ed è del 1968, a diciotto anni, la prima via aperta sul Monte Palazza, nella Val Zemola di Erto.

La madre abbandona la famiglia pochi mesi dopo la nascita del terzo figlio, Richeto, e passeranno diversi anni prima che faccia ritorno a Erto.

«Oltre al grande vuoto, mia mamma, che era un’accanita lettrice, ci lasciò un patrimonio di libri non indifferente. Letture che divoravo. I personaggi e le storie creati da Tolstoj, Dostoevskij, Cervantes e altri grandi autori mi facevano un’incredibile compagnia».

«Era una vita a contatto con la Natura e con gli elementi della Terra»

Ai nonni resta il compito di tirare su i ragazzi. Dal vecchio Felice, abilissimo intagliatore, Corona apprende sin da bambino i rudimenti della scultura. Ma è l’unico in casa a divertirsi incidendo cucchiai e mestoli di legno con occhi, nasi e volti.

«Ricordo un’infanzia che potrei definire quasi felice, quella passata assieme ai nonni e mia zia. C’era una grande serenità in casa. Quando mia madre fece ritorno, tutto cambiò. Cominciarono i litigi fra lei e mio padre, le botte; la pace di prima svanì.
Più tardi, alle porte di Belluno, il 24 agosto 1962, morì anche mio nonno. Fu investito da un pirata della strada. Per me fu un colpo davvero duro».

Nel frattempo Mauro Corona frequenta la scuola elementare fino all’ottava classe a Erto, poi inizia le medie a Longarone. Ma il 9 ottobre 1963 la gigantesca ondata del Vajont spazza letteralmente via l’intera cittadina di Longarone.

«Ricordo un boato indescrivibile, come il rombo di centinaia di aerei che solcano il cielo. Siamo usciti tutti all’aperto, terrorizzati. Era buio pesto. Mia zia Tina, sordomuta, era rimasta in casa, ignara. Toccò a me andare a tirarla via da lì, con la terra che tremava come durante un terremoto. Ci andai, anche se non mi reggevo sulle gambe. Mio padre era via, a caccia, i miei fratelli erano piccoli. Mio nonno non c’era più. Toccava a me aiutare la zia».

Gli Anni Difficili

«Appena dopo il disastro portarono me e Felice a Cimolais, dove rimanemmo alcuni giorni. Tornò a prendermi mio padre, in moto. Ci portò al Collegio Don Bosco di Pordenone».

Mauro Corona, insieme al fratello Felice, sarà costretto quindi a trasferirsi per tre anni nel Collegio Don Bosco di Pordenone, dove furono mandati a studiare alcuni giovani sfollati dopo la tragedia del Vajont. La nostalgia, il disagio, il senso di prigionia e di esclusione, la mancanza degli spazi liberi, dei boschi, saranno i sentimenti più imponenti nel corso di quel lungo periodo.

«Piangevo tutti i giorni. Mi mancavano i miei boschi, la mia casa, le montagne. Mi addormentavo in lacrime sognando di tornare a Erto. Il Don Bosco era frequentato solo dai figli della “Pordenone bene”. Noi sfollati venivamo emarginati e presi in giro. Erano frequenti i litigi, le botte. Del Collegio Don Bosco non ho solo esperienze negative. Resta anche la riconoscenza verso alcuni insegnanti, sacerdoti Salesiani, che hanno rafforzato il mio amore per la letteratura, incoraggiandomi nello studio».

«Durante il collegio non facevo che pensare a quando scolpivo col nonno. Avrei voluto studiare scultura. Terminato il collegio chiesi a mio papà di frequentare la Scuola d’Arte di Ortisei. Per tutta risposta mi iscrisse all’Istituto per Geometri Marinoni di Udine solo perché era gratuito. Anche se odiavo quella scuola per geometri, cercavo di fare del mio meglio. Il momento in cui mi sono impegnato di più, in due anni, è stato durante un compito in classe di disegno tecnico. Ero sicuro di aver fatto un capolavoro di precisione e grafica. Prima di consegnarmi il foglio col voto, il professore definì il mio lavoro “il peggiore esempio di come NON va svolto l’elaborato”, cosa che sottolineò di fronte a tutti i miei compagni. Dopo questo episodio non seguii più le lezioni, leggevo Tex in classe. Poco dopo fui ritirato».

Nemmeno il fratello Felice continua gli studi: nel 1968 parte per la Germania con il progetto di guadagnare lavorando in una gelateria, desiderio inseguito da molti giovani in quegli anni.

Nemmeno tre mesi dopo annegherà in una piscina di Paderborn, a diciassette anni.

Mauro lascia il posto da manovale che aveva trovato a Maniago e va a spaccare massi nella cava di marmo del Monte Buscada, come scalpellino riquadratore. «Sette anni di lavori forzati come dannati di pietra» ricorda oggi. Ma a lui non importa, gli basta rimanere a contatto con gli amati luoghi dell’infanzia, con quelle cime, quelle foreste e quelle radure che tanto gli ricordano la gioventù. Sospende l’attività solamente durante il periodo del servizio militare, a vent’anni. Con i capelli lunghi fino alle spalle, lascia i monti e parte per L’Aquila arruolato negli alpini. Da lì finisce a Tarvisio nella squadra sciatori.

«Abituato alla disciplina dei Salesiani del Collegio Don Bosco quella della naia a confronto era un gioco da ragazzi» ripete spesso Mauro, aggiungendo subito dopo: «Al tempo erano quindici mesi di Naia, io ne ho fatti diciotto. Tre mesi in più di gaetta, la prigione disciplinare».

«Durante il servizio di leva ho preso la patente al CAR. Ero di ruolo a Tarvisio nella 14^ Batteria, gruppo Conegliano, divisione Julia, con incarico di conducente del mulo. La mia mula si chiamava Innata, e portava la bocca da fuoco, una parte dell’obice che pesa un quintale e dieci. I miei superiori avevano deciso di allenarmi e di farmi partecipare alle gare di combinata sci da fondo e tiro di precisione. Partecipavamo alle gare G.I.S.T.A (Olimpiadi degli Alpini). Una la stavamo per vincere ma al mio compagno di corsa, Armando, ertano anche lui, atleta incredibile, mancarono improvvisamente le forze. Fu così che scoprì di avere una rara malattia al cuore».

«Abituato alla disciplina dei Salesiani quella della naia a confronto era un gioco da ragazzi»

La Scultura

Intanto, su alla cava di marmo, dopo il pensionamento del capo storico, Argante Gattini, e con l’inesorabile avanzare del progresso, la vita comincia a cambiare. Poco a poco tutti gli operai abbandonano la cava, alla ricerca di altre strade per sopravvivere. Il lavoro si automatizza, ma il giacimento va avanti ancora, ma per poco. Chiuderà infine negli anni ’80.

Anche Mauro lascia la cava di marmo e si dedica a lavori saltuari.

Nei ritagli di tempo e durante i lunghi mesi invernali continua a intagliare figurine in legno, camosci, scoiattoli, uccelli e Madonnine. Non aveva mai smesso, ma li tiene nascosti, non mostrandoli a nessuno, per pudore e timidezza.

Una mattina del 1975 un distinto signore di Sacile, Renato Gaiotti, passa per caso in via Balbi, nella vecchia Erto, davanti al minuscolo covo dove già da qualche anno Mauro Corona abita. L’uomo nota alcune piccole sculture attraverso i vetri della finestra al pianterreno e decide di comprarle tutte in blocco. Mauro Corona comincia a sperare davvero di poter vivere d’arte.

La sua fiducia si rafforza quando, soddisfatto dell’acquisto, poco tempo dopo Gaiotti gli commissiona una Via Crucis da donare alla Chiesa di Sacile. Per quei quattordici pannelli lascia sul tavolo di uno sbalordito Mauro Corona una cifra stratosferica per quegli anni.

Sembra incredibile, eppure è una svolta: oltre a procurarsi tutto il necessario per rendere vivibile la sua tana, Mauro Corona investe il resto dei soldi nell’attrezzatura indispensabile a scolpire e decide di trovarsi un maestro che gli possa insegnare seriamente il mestiere. La scelta ricade su Augusto Murer, il geniale artista di Falcade morto nel 1985.

Riesce a frequentare il suo studio solo di tanto in tanto, ma lo fa per dieci anni, ampliando enormemente le sue conoscenze tecniche e artistiche. Tra i due nasce una bella e profonda amicizia. Murer sarà infatti presente anche alla prima mostra che Mauro organizza a Longarone.

È il 1976. Da allora le esposizioni sono seguite numerose e nei luoghi più disparati, fino in Svizzera. L’ultima è del 1997, quando lo Spazio Foyer del Centro Servizi Culturali Santa Chiara di Trento fu invaso dal “Bosco Scolpito” di Mauro Corona.

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mauro corona giovane scultore

L'Arrampicata

A partire dagli anni ’80 Mauro Corona inizia ad attrezzare la falesia di roccia di Erto. All’epoca infatti stava nascendo un nuovo sport ovvero l’arrampicata sportiva. E la parete di Erto a strapiombo era perfetta per diventare una falesia di free climbing. L’idea di Mauro Corona è geniale e viene subito molto apprezzata. In poco tempo Erto diventa la meta più ambita da climber e arrampicatori di tutto il mondo che passano il loro tempo campeggiati alla meglio nell’area della falesia e provano in continuazione quelle bellissime vie di roccia molto difficili all’epoca. Vengono così organizzati diversi meeting di arrampicata sportiva e il piccolo paese sarà periodicamente popolato da estrosi personaggi con fuseaux colorati e capelli lunghi.

«Le pareti strapiombanti di Erto erano una sfida estrema sognata dagli scalatori di tutto il mondo».

«In breve attorno alla falesia si sono avvicendati gli scalatori più forti d’Italia e poi d’Europa, addirittura del mondo. Venivano per cimentarsi in un nuovo tipo di scalata che non esisteva da nessun’altra parte: gli strapiombi, appunto. Il grande Manolo, la prima volta che scalò a Erto ebbe la peggio. Ma gli bastò poco per trovare il modo di primeggiare anche su quelle pareti. Non c’era solo lui: Icio dall’Omo, Sandro Neri, Roberto Bassi e tanti altri. Tutti scalatori che facevano parte di quello che, anni dopo, fu nominato lo “Zoo di Erto”. Assieme abbiamo chiodato altre nuove vie, che sono quelle presenti ancora adesso».

Mauro Corona attrezza rocce e falesie del Friuli, del Veneto, arrivando fino a Paklenica, in Croazia. Oggi diverse montagne sono punteggiate da vie di scalata che portano la sua firma, dalla palestra di roccia arroccata in posti inaccessibili, a salite di notevole impegno alpinistico.

«Per molti inverni ho scalato assieme al grande alpinista e pioniere dell’arrampicata su ghiaccio Gian Carlo Grassi. Ci legava una profonda amicizia e la stessa passione di salire cascate ghiacciate con piccozze e ramponi. Gian Carlo segnava su un piccolo diario che teneva sempre in tasca tutte le vie che realizzava. Catalogava sia quelle lunghe e impegnative che i piccoli rivoli ghiacciati. Li saliva e poi gli dava un nome, trascrivendo una relazione completa. La Val Cimoliana era il nostro campo avventura: in inverno, al tempo, diventava il paradiso del ghiaccio. C’erano cascate immense lungo tutta la valle».

Mauro Corona però non si limita all’Italia, avventurandosi fino in Groenlandia per una spedizione internazionale e volando in California per toccare con mano le leggendarie pareti della Yosemite Valley.

«In Groenlandia eravamo nella regione orientale: un gigantesco deserto di neve e picchi che si perdevano all’orizzonte. Ricordo che mi ero smarrito. Bastava infatti una piccola distrazione per perdere l’orientamento. Non riuscivo più a trovare la via del ritorno. Quel giorno non so come sono riuscito a tornare al campo base, ma ero allo stremo delle forze. Nel villaggio di Angmagssalik scolpivo assieme agli intagliatori locali. Lavoravano ossa e denti di orso bianco e realizzavano piccoli totem di incredibile raffinatezza: i tupilak».

“La Spedizione Alpinistica Internazionale in Groenlandia Orientale “Distretto di Angmagssalik” per commemorare l’individuazione nel 1884 dell’esploratore danese Gustav Holm di 413 Inuit Tunumiit rimasti intrappolati nel ghiaccio”.

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Sulla vetta del Col Nudo con Franco Miotto e Benito Saviane giugno 1982

La Scrittura

Mauro ama anche scrivere. Un amico giornalista, Maurizio Bait, un giorno decide di pubblicare alcuni dei suoi racconti sul quotidiano “Il Gazzettino”.

Si trattava di una rubrica settimanale all’interno del quotidiano, protratta per due stagioni, intitolata “I cieli” la prima e “Sotto le foglie” la seconda.

È così che comincia, all’inizio un po’ in sordina, una nuova attività: quella di scrittore, che lo porterà alla pubblicazione di diversi libri, dal 1997 fino a oggi, editi dalle case editrici italiane più prestigiose.

Mauro Corona ha ottenuto numerosi riconoscimenti in campo letterario tra cui: il Premio Papa Leone I Magno nel 1993; il Premio San Marco nel 1995; il Cardo d’argento 27° Premio Itas del Libro di montagna nel 1998 (ll volo della martora); il Premio Nazionale di letteratura naturalistica Parco della Majella 2° premio per la sezione narrativa edita 2002 (Le voci del bosco); il Cardo d’argento 37° Premio Itas del Libro di montagna nel 2008 (Cani, camosci, cuculi e un corvo); il Premio Grinzane-Cavour nel 2008 (Le voci del bosco); il Premio Cavallini nel 2009 (ll canto delle manére); il Pelmo d’Oro nel 2009; il Premio Bancarella nel 2011 (La fine del mondo storto); il Premio Mario Rigoni Stern 2014 (La voce degli uomini freddi). È inoltre entrato come finalista al Premio Campiello 2014 (La voce degli uomini freddi).

Per puro divertimento partecipa alla realizzazione di alcuni documentari sulla sua vita e prende parte al film-denuncia sulla catastrofe del Vajont.

Durante tutto questo tempo Mauro Corona non trascura gli affetti e riesce anche a crearsi una famiglia.

La sua bottega-studio oggi sembra la tana di un ghiro scavata nel cirmolo. Mauro Corona continua ad occuparsi delle sue passioni. Alterna solitari momenti di studio e di scrittura a conferenze, incontri pubblici e presentazioni letterarie.

Scolpisce sempre per dare vita a gufetti, civette, misteriosi spiriti dei boschi e librerie a forma di albero e trova sempre ispirazione durante le passeggiate meditative tra i boschi.

«Mi dispiace per i dattilografi che devono ricopiare a computer i miei geroglifici, ma io scrivo ancora solo “a mano” le mie storie».

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