Mauro Corona

Filosofia

Mauro Corona è uno spirito libero che ha respirato l’aria di una terra antica. Le foreste e le valli del suo paese, incastonato tra le montagne, sono luoghi magici, smarriti nel tempo, che lo hanno aiutato a sviluppare temi e pensieri rintracciabili nei libri, nelle sculture, nelle arrampicate.

«La montagna mi ha dato ciò che amici, donne, genitori non sono riusciti a darmi. Dalla montagna mi sono sentito compreso, ascoltato e considerato. Qualche volta anche spintonato, certo, ma sempre dopo esser stato avvertito. La Natura, se la sai ascoltare, ti dice tutto. È l’egoismo degli esseri umani che li rende incapaci di ritrovare il dialogo con la Terra. Ci scordiamo di essere animali di passaggio, ospiti di questo mondo».

«Oggi le delusioni non mi forano più: si spuntano contro il mio animo diventato corteccia. Quando le cose non vanno bene mi rifugio su qualche vetta. È come fare visita a un’amica per avere consiglio, per riflettere prima di far sciocchezze, così da spegnere i fuochi dei gesti impulsivi. La Natura e le montagne sono una medicina, l’appiglio per non cadere. Dalle mie vette ho avuto protezione e affetto. La scalata estrema è venuta dopo, ma non c’entra nulla, o molto poco, con l’amore per la Natura, con ciò che mi ha dato e continua a darmi. Ho speso i giorni in compagnia della roccia e del vuoto e mi sono trovato bene. Molto di più che con i miei simili. La montagna non è gelosa o invidiosa, non cerca potere né vendetta. Se la rispetti, non ti tradirà. Non è fedele ma è leale, sempre. Essa mi ha insegnato che dalla vetta non si va in nessun posto, si può solo scendere».

Sono pensieri di vita che Mauro Corona ha elaborato prendendo spunto dalle vicissitudini sue e della sua terra, che lo hanno portato a raccontare un mondo lontano ancora bisognoso di quel riscatto che solo la memoria può offrire, soprattutto dopo l’immane tragedia del Vajont del 1963.

La salvaguardia della memoria diventa così una sua priorità. Mauro Corona spesso invita tutti a scrivere del proprio mondo perché: «Un giorno le memorie aiuteranno a ricostruire universi scomparsi e dimenticati. La scrittura è una forma di sopravvivenza, una lotta contro l’oblio. La memoria va salvata in tutti i modi: con la scrittura, la scultura, la pittura, il cinema. Con qualsiasi mezzo che ferma un ricordo».

«Quante storie si sono perdute nell’abisso del tempo? Nessuno le ha messe nero su bianco perciò nessuno lo potrà mai sapere. Non è obbligatorio pubblicare, ma è doveroso scrivere e “mettere lì”. Storie di cantine, di campagne, di lavoro. Aneddoti che potrebbero essere trame di un romanzo intero. Storie perdute, dimenticate; personaggi che ci sono passati accanto rivivono solo grazie ai nostri sforzi».

«Vivere è come scolpire, occorre togliere per vedere dentro»

Se la scrittura per Mauro è una lotta contro il tempo, l’essenzialità ne incarna lo stile.

«Per me scrivere è fotocopiare un pensiero, una sensazione, un ricordo usando meno parole possibile. Lavoro per sottrazione, non per aggiunta. È quello che accade in scultura: per creare, dare forma, bisogna togliere, non mettere».

Un’espressione non solo relegata alla scrittura, ma che coinvolge tutta la sua esistenza. Essere naturali, ascoltare i propri bisogni e scrollarsi di dosso conformismi imposti da quelle che Mauro chiama “tecniche dell’apparenza” sono una logica conseguenza.

«La vita ti leviga, ti smussa e ti porta a dover essere essenziale. Ciò che conta, nella vita, è l’essenziale».

«Cerco di togliere il superfluo per apprezzare maggiormente l’esistenza. Circondarsi di orpelli e oggetti inutili crea dipendenza e schiavitù. Automobili, vestiti, telefonini, macchine fotografiche, un “bosco di metallo” che toglie consistenza all’animo. Investire in tempo libero senza lasciar sfuggire la vita. Smettere di inseguire quello che non ci piace è difficile, ma bisogna provarci, almeno ogni tanto. Se un giovane non ha un’auto di un certo tipo, si vergogna. Allora spende gli anni migliori per accumulare denaro e comprarla. Abbiamo costruito un’umanità fondata sul paragonarsi l’uno con l’altro. “Lui ce l’ha e io no”. La vita dovrebbe essere come scolpire, cioè togliere il superfluo, per cui io mangio quando mi va, e non quando me lo dice l’orologio. Questa è la naturalità».

Recuperare il rapporto con la terra per sentirsi più naturali significa anche recuperare la manualità, la volontà di costruire con le mani. Una capacità creativa in via d’estinzione a causa del massiccio sviluppo tecnologico moderno, fonte di comodità ma anche di ansie e stress.

Mauro Corona vede nel ritorno alla terra l’unica via di fuga da questo circolo vizioso. Anche in termini di risorse. Ritornare all’agricoltura come veicolo di benessere, sia ecologico che, soprattutto, fisico: la fatica è componente fondamentale per riappropriarsi della naturalità.

«La fatica è come la lettura: un salvavita. La volontà del mondo moderno di eliminare la fatica a tutti i costi è una piaga molto pericolosa per il futuro.»
Bisogna tornare alla terra, all’agricoltura, coltivare i campi, imparare a farci da soli il cibo e non pretendere di andare a comprarlo. Devono smetterla i nostri governanti, questi nuovi “faraoni”, di investire solo sulle industrie. Ci devono permettere di tornare a fare i contadini. Se ti fai il mangiare hai tutto: animali, riso, frumento, insalata, verdure, frutta. Diventi invincibile. Lo so che è un’utopia ridicola, e può sembrare patetico. Ma se viene la fame bisogna imparare a sostentarsi, perché i soldi non li mangi.»

«L’uomo non è mai contento. Crede che la felicità sia nella ricerca del superfluo»

«Dobbiamo tornare alla terra, a usare le mani, a sporcarcele con il lavoro manuale, che stiamo smarrendo. Se finisce il petrolio, non siamo più capaci di fare nulla. Oggi nelle case ci sono apparecchi elettrici che mescolano polenta, gratta formaggio, pelapatate, sbattiuova. È tutto automatico. La tecnologia è un “mostro” che impedisce all’essere umano di muoversi. È un’entità di metalli assemblati che ci fa camminare sempre meno. Gli arti si stanno già atrofizzando. Quando è possibile, cerchiamo di andare a piedi, altrimenti pagheremo tutti questa rinuncia. L’essere umano non è mai contento. Crede che la felicità sia nella ricerca del superfluo.»

Il concetto di sottrarre si può leggere non soltanto come ottimizzazione di valori legati al lavoro, agli affetti, e alla crescita personale ma anche come elemento di privazione.

Mauro Corona infatti ha combattuto per non annegare dentro un destino avverso. La sorte gli ha negato l’affetto dei genitori, la mamma lo lasciò ancora bambino per fuggire alle angherie di un padre alcolista e violento. La perdita dell’amato nonno Felice e di un fratello in giovanissima età sono eventi che Mauro ha dovuto sopportare stringendo i denti, circondato da una povertà assoluta fatta di stenti e rinunce. Una ventura che raggiungerà l’apice avverso con l’immane tragedia del Vajont nel 1963.

Il disastro del Vajont del 1963 è diventato l’emblema della memoria che viene stroncata dalla società dello sviluppo economico a tutti i costi, incapace di imparare che la Natura non va prevaricata e che farlo può diventare molto pericoloso.

«Nel Vajont c’è la nostalgia di cose perdute. Le civiltà del passato sono state annientate nel giro di secoli, attraverso sanguinose guerre o trasformazioni epocali lente, inesorabili. Noi ertani invece siamo stati spazzati via in un minuto. Usi, costumi, tradizioni, la fratellanza che ci univa. Il giorno dopo ci siamo trovati sparsi qua e là senza più una direzione, uno scopo. La nostra vita era composta di lavoro nei campi e nei boschi, abitudini scandite da ritmi precisi e naturali. In un lampo tutte queste cose sono scomparse.»

«Il paese ricostruito non è nemmeno l’ombra di quello di prima, dove la cucina era un luogo sacro in cui si decidevano matrimoni, divisioni di territori, compravendite e affari. Ci siamo ritrovati in case di cemento, senz’anima, nelle quali le nostre vecchiette sembravano un puntino nero sulla neve. Nella vecchia Erto tutto era di legno e pietra. Le case si tenevano per mano come i rami di un rosario. Per questo eri obbligato a andare d’accordo: se davi una scodella di zucchero a un vicino, poi quello ti mandava una ricotta, in cambio. Era un paradiso terrestre, la valle del Vajont, isolata dal mondo.»

«Attraverso i miei racconti ho cercato di rievocare come eravamo. So che questa nostalgia appartiene solo a chi, come me, ha visto il “mondo di prima”. I giovani di oggi non sanno com’era la vecchia Erto e perciò non possono percepire la stessa malinconia, lo stesso vuoto. Chi ha visto, invece, morirà col dolore di una perdita inconsolabile. Un lutto non solo per i morti, ma anche verso un mondo, una cultura, un modo di vivere l’uno accanto all’altro che non torneranno mai più.»

Il Vajont, quindi, secondo Mauro Corona, è la terribile metafora dell’arroganza umana che, cercando di sovvertire l’ordine naturale del pianeta, finisce inesorabilmente per distruggere tutto e tutti. Il punto di partenza per lanciare un monito a tutti gli abitanti della Terra: l’essere umano, nella sua foga di sostituirsi a Dio, sta andando incontro a un destino incerto, adombrato dallo spettro dell’auto annientamento.

«Quando interrompi l’andare naturale, da qualche altra parte una forza contraria si deve sfogare. Non c’è niente di più tranquillo e innocuo di un torrente. Ma se tu lo fermi, non sai cosa può accadere. È quello che è successo con il Vajont: hanno voluto imbrigliare qui e lì, e si sono visti i risultati. Dobbiamo pensare anche alle generazioni che verranno. Siamo ancora in tempo per cambiare direzione, ma bisogna fare in fretta, ricominciare da adesso, da domani mattina.»